18 Ottobre 2008, nostro banchetto
Il piatto speciale dei giorni di festa alle tonga è il maiale arrosto. Dopo averne assaggiati diversi durante svariate feste folkloristiche abbiamo deciso di provare a cimentarci in prima persona nella preparazione di un banchetto in stile locale.
La materia prima ce l’ha procurata Nito, che si è pure occupato di uccidere il maialino, mentre al resto della preparazione abbiamo partecipato un po’ tutti.
Per prima cosa, armati di machete, abbiamo provveduto all’approvigionamento della legna per il fuoco, di per sè un lavoro che alla mano inesperta risulta ben più ostico di quello che si può pensare.
Poi è stato il momento dello scuoiamento: per riuscire a “depilare” per bene il maiale bisogna prima bagnarlo con acqua bollente, e poi grattarlo con un coltello come si fa con i pesci per squamarli.
Una volta eliminata tutta la peluria bisogna passare ad un vero e proprio atto di chirurgia: facendo attenzione a non andare troppo in profondità tagliando l’intestino, bisogna incidere la pancia del maiale in modo da poter estrarre tutti gli organi. Una volta sventrato si può passare all’impalamento: bisogna cioè cercare di passare da capo a piedi il maiale con un ramo robusto precedentemente tagliato e raffinato.
Ovviamente più il maiale è piccolo e più la faccenda sarà complicata, in ogni caso è meglio asportare del tutto l’ano ed incidere I tendini della mandibola ed eventualmente la trachea, per facilitare il passaggio dello spiedo.
Una volta sbrigato anche quest ultimo lavoraccio non resta che accendere il fuoco in una buca ben scavata e passare alla lenta e paziente cottura.
Infatti per evitare che il porco sia bruciato fuori e bollito dentro bisognerà rosolarlo con cura girando in continuazione lo spiedo per almeno tre o quattro ore, ovvero
il tempo necessario affinchè il grasso si sciolga e coli attraverso la pelle, permettendo al calore di arrivare alla carne e cuocerla a dovere.
Una volta arrostito, asportare lo spiedo dal maiale e passare al taglio: le quattro cosce, le spalle e le natiche forniranno i pezzi piu' ambiti, ma anche il costato sara' succulento da spolpare. La testa poi, una vera sorpresa per i novizi, ed uno scrigno di carni succulente per l'intenditore.
Non servira' ne' sale ne' altro condimento, disporre le portate su un vassoio di foglie di palma intrecciate, ed ornare di patate arrosto quanto basta.
Bon apetit!
venerdì 28 novembre 2008
VAVA'U II
14 Ottobre 2008
Ci sono alcuni posti nel mondo che devono preservare il loro habitat da ogni forma di vita estranea che potrebbe portare squilibri e danneggiamenti nel microcosmo biologico del territorio. Vi ricordate la puntata dei simpson in cui bart introduce di nascosto in australia una rana? La satira non era fuori luogo. Australia e Nuova Zelanda, sono infatti i paesi più sensibili all’importazione di qualsivoglia forma biologica: ogni barca in arrivo deve dichiarare l’intenzione di raggiungere il paese prima ancora di essere entrata nelle acque territoriali.
Una volta arrivati in un porto di entrata, si sarà avvicinati dalla guardiacostiera che salirà a bordo per mettere in quarantena qualsiasi oggetto ritenuto pericoloso.
Per evitare dunque al mio amato peperoncino di finire nel fondo di un sacco nero ho deciso di lasciarlo qui alle Vava’u, l’ho regalato ad Eduardo e Maria, che sapranno farne un degno uso nel loro ristorante a Tapana Island.
Eduardo e Maria erano due navigatori, dopo aver girato per anni il mondo a bordo della loro piccola barca a vela, una quindicina di anni fa hanno deciso di fermarsi qui alle Vava’u affittando l’isoletta di Tapana e costruendovi sopra un adorabile ristorantino in pieno stile spagnolo. Ora lui suona e canta per gli avventori, mentre Maria cucina e balla il flamenco.
Sono proprio loro a presentarmi Nito. Nito, all’anagrafe Johannito Hausia, è un tongano purosangue emigrato in america all’età di dodici anni, dove si è pagato il college giocando a football per poi votarsi al tennis diventando uno dei 200 migliori giocatori al mondo. Consumata fino in fondo la carriera di giocatore professionista, dopo 40 anni lontano dal suo paese, due anni fa ha deciso di mollare tutto e ritornare a vivere in una capanna nella sua terra natale. Sarà la mia guida per un giro a cavallo.
L’arcione non e’ certo dei migliori: la sella e’ arrangiata alla bellemeglio, rotta in piu' parti ed instabile sulla groppa del cavallo, ma la bestia e' forte e grintosa, sempre pronta a scattare e a lanciarsi in lunghe galoppate fra la foresta tongana; Nito mi ha lasciato il cavallo migliore e ci siamo messi subito alla prova reciprocamente: io cercando di spingerlo verso il limite di velocita' oltre il quale le mie ginocchia avrebbero ceduto, lui cercando di scattare per la sua strada ogni qual volta chissa' quale brusio o movimento di frasche lo attirava fuori dalla sentiero battuto.
Mano a mano che esploriamo l'isola Nito mi parla della cultura tongana, di come sia cambiata in 40 anni, e della pessima influenza che i paesi civilizzati hanno esercitato. Ma la politica e' un argomento troppo pesante per l'amenita' del luogo e della passeggiata, ed incalzati dal dolce sapore dei mango che strada facendo cogliamo dagli alberi cambiamo presto discorso contemplando piuttosto la bellezza e la ricchezza del paesaggio.
Nito e' proprio il genere di persona che il viaggiatore curioso vorrebbe incontrare in ogni nuovo paese: pur genuinamente legato alla terra e addentro agli usi e costumi locali, la sua formazione cosmopolita e la varieta' di interessi gli permettono di essere una guida ideale, un tramite perfetto per avventurarsi nella comprensione di una cultura altrimenti irraggiungibile.
Nella maggior parte dei casi infatti gli autoctoni non hanno mai lasciato il paese, spesso nemmeno il recinto di terra in cui sono nati, il che rende azzardata qualsiasi supposizione di intesa: anche ammesso di avere una lingua comune, come si puo' pensare che l'altro condivida i significati reconditi dell'altrui curiosita' verso i propri costumi?
Una domanda semplice, sottesa ad avere una dritta su un buona taverna che serva piatti locali: "cosa mangiate, in famiglia o con gli amici, quando volete assaporare qualcosa di veramente buono e speciale? Dove andate?"
Risposta: "Mc Donalds!"
La globalizzazione, al suo peggio.
E' questo che gente come Giuliano Ferrara, con un ostinato candore politically correct, non riesce a comprendere: perche' certo la globalizzazione sarebbe la conquista piu' grande della storia dell'uomo, se con questo termine si intendesse l'accesso libero, pubblico, e gratuito di ogni cultura con ciascuna altra, se sotto questa bandiera splendesse la distribuzione uniforme e genuina di informazione, sanita' e benessere.
L'intoppo purtroppo e' che invece l'unica cosa che si "globalizza" (propriamente "si esporta e radica nei paesi meno sviluppati") e' una cultura del consumo votata a riempire le tasche di chi ha gia' saturato i mercati "sviluppati", che lungi da portare alcun beneficio, incentiva solo l'estinzione di tradizioni antiche e la sostituzione di abitudini naturali con surrogati e simulacri di necessita' primarie.
Con una strana malinconia Nito mi fa notare che i prati ai piedi degli alberi sono pieni di frutti passati che nessuno ha colto: i bambini preferiscono la fanta.
Ci sono alcuni posti nel mondo che devono preservare il loro habitat da ogni forma di vita estranea che potrebbe portare squilibri e danneggiamenti nel microcosmo biologico del territorio. Vi ricordate la puntata dei simpson in cui bart introduce di nascosto in australia una rana? La satira non era fuori luogo. Australia e Nuova Zelanda, sono infatti i paesi più sensibili all’importazione di qualsivoglia forma biologica: ogni barca in arrivo deve dichiarare l’intenzione di raggiungere il paese prima ancora di essere entrata nelle acque territoriali.
Una volta arrivati in un porto di entrata, si sarà avvicinati dalla guardiacostiera che salirà a bordo per mettere in quarantena qualsiasi oggetto ritenuto pericoloso.
Per evitare dunque al mio amato peperoncino di finire nel fondo di un sacco nero ho deciso di lasciarlo qui alle Vava’u, l’ho regalato ad Eduardo e Maria, che sapranno farne un degno uso nel loro ristorante a Tapana Island.
Eduardo e Maria erano due navigatori, dopo aver girato per anni il mondo a bordo della loro piccola barca a vela, una quindicina di anni fa hanno deciso di fermarsi qui alle Vava’u affittando l’isoletta di Tapana e costruendovi sopra un adorabile ristorantino in pieno stile spagnolo. Ora lui suona e canta per gli avventori, mentre Maria cucina e balla il flamenco.
Sono proprio loro a presentarmi Nito. Nito, all’anagrafe Johannito Hausia, è un tongano purosangue emigrato in america all’età di dodici anni, dove si è pagato il college giocando a football per poi votarsi al tennis diventando uno dei 200 migliori giocatori al mondo. Consumata fino in fondo la carriera di giocatore professionista, dopo 40 anni lontano dal suo paese, due anni fa ha deciso di mollare tutto e ritornare a vivere in una capanna nella sua terra natale. Sarà la mia guida per un giro a cavallo.
L’arcione non e’ certo dei migliori: la sella e’ arrangiata alla bellemeglio, rotta in piu' parti ed instabile sulla groppa del cavallo, ma la bestia e' forte e grintosa, sempre pronta a scattare e a lanciarsi in lunghe galoppate fra la foresta tongana; Nito mi ha lasciato il cavallo migliore e ci siamo messi subito alla prova reciprocamente: io cercando di spingerlo verso il limite di velocita' oltre il quale le mie ginocchia avrebbero ceduto, lui cercando di scattare per la sua strada ogni qual volta chissa' quale brusio o movimento di frasche lo attirava fuori dalla sentiero battuto.
Mano a mano che esploriamo l'isola Nito mi parla della cultura tongana, di come sia cambiata in 40 anni, e della pessima influenza che i paesi civilizzati hanno esercitato. Ma la politica e' un argomento troppo pesante per l'amenita' del luogo e della passeggiata, ed incalzati dal dolce sapore dei mango che strada facendo cogliamo dagli alberi cambiamo presto discorso contemplando piuttosto la bellezza e la ricchezza del paesaggio.
Nito e' proprio il genere di persona che il viaggiatore curioso vorrebbe incontrare in ogni nuovo paese: pur genuinamente legato alla terra e addentro agli usi e costumi locali, la sua formazione cosmopolita e la varieta' di interessi gli permettono di essere una guida ideale, un tramite perfetto per avventurarsi nella comprensione di una cultura altrimenti irraggiungibile.
Nella maggior parte dei casi infatti gli autoctoni non hanno mai lasciato il paese, spesso nemmeno il recinto di terra in cui sono nati, il che rende azzardata qualsiasi supposizione di intesa: anche ammesso di avere una lingua comune, come si puo' pensare che l'altro condivida i significati reconditi dell'altrui curiosita' verso i propri costumi?
Una domanda semplice, sottesa ad avere una dritta su un buona taverna che serva piatti locali: "cosa mangiate, in famiglia o con gli amici, quando volete assaporare qualcosa di veramente buono e speciale? Dove andate?"
Risposta: "Mc Donalds!"
La globalizzazione, al suo peggio.
E' questo che gente come Giuliano Ferrara, con un ostinato candore politically correct, non riesce a comprendere: perche' certo la globalizzazione sarebbe la conquista piu' grande della storia dell'uomo, se con questo termine si intendesse l'accesso libero, pubblico, e gratuito di ogni cultura con ciascuna altra, se sotto questa bandiera splendesse la distribuzione uniforme e genuina di informazione, sanita' e benessere.
L'intoppo purtroppo e' che invece l'unica cosa che si "globalizza" (propriamente "si esporta e radica nei paesi meno sviluppati") e' una cultura del consumo votata a riempire le tasche di chi ha gia' saturato i mercati "sviluppati", che lungi da portare alcun beneficio, incentiva solo l'estinzione di tradizioni antiche e la sostituzione di abitudini naturali con surrogati e simulacri di necessita' primarie.
Con una strana malinconia Nito mi fa notare che i prati ai piedi degli alberi sono pieni di frutti passati che nessuno ha colto: i bambini preferiscono la fanta.
... a wild beast is first of all an adversary, but my horse was a fried. If the choice of my condition had been left to me I would have decided for that of centaur. Between Borysthenes and me relations were of almost mathematical precision; he obeyed me as if I were his own brain, not his master. Such total authority comprises, as does any other power, its risk of error for the possessor, but the plesure of attempting the impossible in jumping an obstacle was too strong for me to regret a dislocated shoulder or a broken rib. My horse knew me not by the thousand approximate notions of title, function, and name which complicate human friendship, but solely by my just weight as man. He shared my every impetus; he knew perfectly, and better perhaps than I, the point where my strength faltered under my will...
- Memoirs of Hadrian
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