venerdì 5 settembre 2008

ECCOCI QUA

Ho iniziato a ricevere messaggi minatori di simpatie ed eredita' revocate, forse e' meglio che inizi a dare qualche notizia di me agli amici ed il famigliame.
L'ultima volta che ho scritto sul blog porta la data del 26 giugno sebbene la traversata del pacifico si fosse conclusa addirittura 20 giorni prima, esattamente all'alba del 6 Giugno..

E' allora a quella mattina grigia che torna la mente, avvolta dai ricordi come la nebbia intorno alle montagne di Fatu Hiva. Per giorni e giorni abbiamo attraversato una distesa di blu, a volte agitata e roboante, a volte cosi' piatta e calma da poter passare le ore a scrutare la propria immagine riflessa dall'oceano: un immenso specchio blu avvolgente l'orizzonte. Ve lo immaginate? Vi alzate la mattina e la vostra stanza e' l'infinito, il cielo e' il tetto, e lo specchio del bagno in cui scrutate la vostra immagine e' l'oceano intero, e voi nel mezzo.

Dove ho brindato al mio ventiquattresimo compleanno? Sull'oceano, nell'anticamera del mondo. Un po' come quando ad un party troppo affollato si esce fuori dalla mischia: una boccata d'aria fresca.

La traversata pacifica e' passata senza troppi colpi di scena, a parte qualche giorno dopo il mio compleanno, quando a spegnere le candeline tocco' all'armatore. Solo che le candeline scarseggiavano, ed invece le bottiglie di vino e rhum fioccavano, col risultato che qualcuno fini' rotolando, mentre io mi occupavo di recuperare lo spi finito sotto la barca in seguito alla rottura della drizza e mi preoccupavo che chi non voleva andare a letto (nonostante stranamente non si reggesse in piedi) non finisse tuttavia a dormire sul fondo del mare... cosa volete? il bello della diretta...

Ma come vi posso spiegare l'emozione di vedere terra dopo tanto mare? Era davvero una montagna, bruna! e parvemi alta tanto quanto veduta non ne avea alcuna... Una montagna enorme, un corpo estraneo, una breccia nella costante e quotidiana distesa di blu che ormai da settimane copriva il susseguirsi del giorno e della notte.

Poi la baia delle vergini... la bellezza di quel posto deve essersi fatta strada dentro di me, ha scavato le pupille, piegando le retine, premendo i nervi ottici fino a scolpire nel cervello una immagine così indelebile che ancora adesso il ricordo e' come il rilievo di una crosta su cui passo i polpastrelli per tastare una ferita non ancora rimarginata. Muraglie e sculture di pietra scavata dal vento formano il cancello d'accesso ad una valle gialla come l'oro.

Il pamplemous e l'incontro coi marchisiani.
Cosa vi aspettavate? Appena ancorati una piroga mossa a pagaiate da un gruppetto di locali ci viene a dare il benvenuto: con le mani alzate ci offrono della frutta, noi ricambiamo con birra, in lattina.
Il frutto che ci hanno portato lo chiamano "pamplemous" ed in effetti assomiglia ad un grande pompelmo verde... ci guardiamo un po' sospettosi: nessuno e' mai andato pazzo per il pompelmo... Ma una volta aperto ed assaggiato scopriamo che e' un frutto meraviglioso, dissetante come l'acqua fresca di una cascata e gustoso come l'uva pregiata.
Alle marchesi i generi di prima necessita' in particolare (ma volendo anche i piu' differenti) non si acquistano, e' molto piu' conveniente il baratto: l'alcol e' la moneta piu' forte, il pezzo da novanta. Per quello che riguarda la frutta, poi, basta essere ben visti dai locali: e allora se vuoi un frutto coglilo dall'albero.
Perche’ la vera ricchezza delle marchesi, il gioiello dentro lo scrigno, sono proprio le persone: la loro ospitalita’ nella maggior parte dei casi arriva ad essere commovente. Nell’isola di Tauata, ad esempio, siamo stati ospitati per 3 giorni dal capovillaggio e sua moglie, abbiamo festeggiato con la famiglia, i parenti e gli amici, siamo stati invitati a pranzo, colazione e cena… L’ultimo giorno ci hanno donato collane e pendoli creati da loro e mentre ci allontanavamo dalla baia erano tutti a salutarci sulla spiaggia.


Nell’isola di Ua pou, ci ha ospitato una famiglia cucinandoci il maiale selvatico in salsa di cocco, e dopo il pranzo meraviglioso abbiamo parlato delle usanze e della cultura marchisiane. Il capofamiglia ci ha raccontato e spiegato il mito della creazione delle marchesi ed il significato della loro iconografia nonche’ dell’arte dei tatuaggi.
Nell’isola di Nuku Hiva, il nostro tatuatore Matatiki, ci ha ospitato ed accolto fra i suoi amici.
Ma non solo i marchisiani, sono speciali anche le persone che si incontrano qui, gli altri velisti, perche’ in qualche modo tutti vengono contagiati dalle marchesi…




Dopo aver salutato i nostri amici alle marchesi, ci siamo diretti a sud ovest verso le Tuamotou. La traversata di 900 miglia è passata senza problemi, e quando siamo arrivati ci hanno accolto gli atolli meravigliosi dove il segno più alto che può turbare la linea dell'orizzonte è il profilo di qualche palma da cocco. Purtroppo al momento di spostarci verso Rangiroa abbiamo toccato il reef, iniziando a imbarcare acqua. Perfortuna eravamo ancora dentro l'atollo e siamo riusciti ad ancorarci ed approntare una riparazione d'emergenza. Il successivo spostamento verso Papetee si è svolto con la pompa di sentina in azione ogni 3/4 ore ed un occhio sempre alla falla, che non imbarcasse troppa acqua.

Poi Papetee.
Dopo le varie formalità per farci alare e preparare il cantiere per le riparazioni serie, in una birreria ci siamo imbattuti in Stephan, contrabbandiere di perle mezzo corso e mezzo svizzero che vive da anni in polinesia. Il soggetto aveva tutte le carte in regola per diventare nostro amico ed infatti ci ha guidato nelle notti attraverso i locali più malfamati di Papetee.


Appena finiti i lavori di refitting alla barca ci siamo messi a girare le isole della Societa', fino a giungere qui a BoraBora, da cui sto ora scrivendo.

E' il cinque Settembre, e domani dovremmo fare vela verso Suwarow, la più sperduta delle isole cook...

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Vi segnalo il sito di Andrea e Gabry, con cui dovremmo navigare in flottiglia fino alla Nuova Zelanda: dreamyachting.com

BRING ME BACK MR FLASH BACK

Spesso dovremmo fare qualcosa, ma le circostanze ci impediscono di compiere cio’ che vorremmo.
Il tempo passa e nel passato rimangono dei buchi, e piu’ lo scorrere dei fatti nel presente riempie di avventure il tempo, piu’ quei buchi si allargano, proprio dentro di noi.
E’ infatti solo in noi la mancanza di qualcosa non fatto, certo non nel Mondo, con la sua straripante abbondanza di avvenimenti.
Fantasticando questi pensieri mi ero ormai convinto dell’inutilita’ di scrivere riguardo agli avvenimenti dei giorni da Cuba al mio arrivo in Polinesia: tanto vale saltare a pie’ pari, lasciare il mistero, e riprendere il blog dai giorni presenti.
A rincarare la dose, lo spettro della difficolta’ di scrivere con passione su avvenimenti passati strizzava subdolamente l’occhio alla pigrizia ed al suo compagno oblio.
Vi prego, lasciate alle romanticherie da soap-opera le immagini ingenue dello scrittore in preda all’ispirazione che nell’arco di una notte febbrile produce il suo capolavoro di getto: sono pie illusioni.
Scrivere e’ un lavoro. E richiede tempo, ma soprattutto isolamento ( non e’ un caso se scaffali e scaffali di pagine famose siano state scritte al fresco di una cella, dietro le sbarre di una galera, o in qualche altra situazione di clausura coatta o meno). Ma basta cosi’, a guisa di scusante mi sovviene con piacere che non ricordo a quando risale l’ultima notte che ho passato solo, col mio tacuino da riempire ed i pensieri da svuotare.
I ringraziamenti per avermi determinato a tornare a scrivere vanno invece a chi mi segue con affetto sul blog, e mi ha ricordato con disapprovazione la mia latitanza degli ultimi mesi.
Riporto allora qui di seguito alcuni appunti e racconti che risalgono ai quattro mesi appena passati secondo un ordine cronologico-geografico: Cuba, Il lavoro su Oasis con i pericolosi intellettuali, Panama e il canale, ed il Pacifico. Altre volte lascio parlare le immagini, spero che le parole ne siano all’altezza.

DIARIO CUBANO

Avvertenza
Ho passato un mese a Cuba. Dall’arrivo a Santiago fino alla partenza dal piccolo porticciolo di Cienfuegos ho sentito una certa intima comunione con quell’isola, un feeling, una sensazione di profonda complementarieta’ legati a quella atmosfera indescrivibile di allegra malinconia che potreste respirare passeggiando senza meta per le strade dell’Havana, in una frizzante notte stellata. Difficile, ora, parlavi di quei giorni, difficile raccontarvi le notti, impossibile certo parlare di Cuba in poche righe. Non lo faro’. Lasciamo solo che la memoria chiacchieri di qualche pensiero e che l’occhio incalzi la fantasia con qualche immagine, il resto lo fara’ l’intuizione di ciascuno.

26/02 HASTA CUBA, SIEMPRE!

L’orologio fa click clack. 11.25 di sera, atterriamo a Santiago de Cuba, la culla della rivoluzione. In aereo ho conosciuto Ilary e Cohen, lei e’ scozzese, lui irlandese; lei fa la commessa in un magazzino e lui il meccanico, stanno insieme da anni e da anni sognavano un viaggio nell’isola del tabacco e del rhum. Sono simpatici e decidiamo di dividere un taxi particular per raggiungere la citta’. Alla dogana mi puntano due soldati con un cane e mi invitano a seguirli, segue solita perquisizione che non ha altro risultato di farmi perdere 2 ore, scompaginarmi il bagaglio, e far morire di sonno i miei nuovi amici che mi aspettano fuori.
Esco, cambio qualche soldo, e contratto col tassista il prezzo per la corsa. Ilary e Cohen non parlano spagnolo e mi invitano a prendere un drink alla casa della musica. Una doccia, una camicia pulita e via.
In realta’ sono stanco (gli ultimi due giorni a santo domingo non ho chiuso occhio) ma il richiamo delle notte di Cuba è troppo forte; dopotutto è da san Martin che ho fatto di tutto per essere qui, lavorando su quegli odiosissimi megayacht e spostandomi dalle comode rotte battute dai velieri in giro per il mondo, rifiutando invitanti imbarchi.
La sera è fresca, e già sento l’atmosfera cubana insinuarsi fra i miei vestiti, infilarsi sotto la pelle e muovermi ad un sorriso di pregustazione. Scendo le scale e mi incammino fra le strade poco illuminate della Santiago di notte, spingo una porta in legno che lascia intravvedere una luce calda ed una musica ritmica, la luce lascia sbocciare la banda che suona e la gente che balla in ogni angolo del locale, mentre la musica mi abbraccia e mi trascina all’interno come un’onda sulla riva della spiaggia. Ilary mi sorride e mi trascina al tavolo, dove una bottiglia di havana club e’ appena stata aperta e tre bicchieri sono in attesa di esseri svuotati.
Ora guardatevi intorno, non importa dove siate, lasciate che tutto quello che sta intorno a voi si sciolga in una nuvola senza forme, e ricomponete la scena con il cortile di una vecchia casa di ringhiera nel centro storico di Santiago de Cuba. Dall’alto le stelle brillanti sbirciano, mentre da dietro un lungo bancone di legno un barman vestito di tutto punto agita mohito e consegna bottiglie di rhum agli avventori. Donne bellissime agitano sorrisi incorniciati di labbra rosse fuoco mentre i fianchi si schiudono ad insinuare le pieghe dei pantaloni di uomini rigorosamente intenti a fumare sigari cubani. Il ritmo è fin dentro le piastrelle, che bruciano sotto ai piedi ed impediscono di star fermi; persino quei vecchi cubani che hanno bevuto un po’ troppo e reggono la testa con una mano non possono evitare di picchiettare con la suola delle scarpe, la notte stessa è scandita dal ritmo che permea l’aria e la fa vibrare, e con lo stesso ritmo prendono a pulsare le vene mosse dall’interno dal sangue che segue e si conforma alle onde del suono.
Cuba non si può visitare, Cuba si deve vivere. Per viverla si deve lasciare che un po’ della sua essenza misteriosa penetri nei meandri della nostra pelle, bisogna respirarla, lasciare che i polmoni ignettino la musica nel sangue, lasciare che i colori si facciano strada tra l’iride e la pupilla e trovino la via del cervello, bisogna che i pori della pelle ne soppesino l’aria densa di sigari ed il gusto dolce del rhum.



Ma c’è una cosa che mi piace più di tutto il resto, più delle feste, dei locali di musica dal vivo, più delle cene, dei sigari, dei mohito e di tutti i rhum, forse persino più delle conturbanti cubane. Adoro, dopo tutto ciò, quando la notte agli sgoccioli è annunciata da una leggera brezza, passeggiare senza meta per le viuzze poco illuminate, in attesa che le luci dell’aurora prendano il posto dei lampioni. C’è un piacere particolare, poi, nell’andare a dormire quando il giorno è alle porte: chiudere la porta in faccia alla città, abbassare le veneziane e dire “buonanotte, per oggi ne abbiamo avuto abbastanza”.


02/03 ANIMA & POLVERE, ancora.

Holguin, Parque Infantil,
al bordo di una strada.

Eccomi qui, in fila per la guas-guas, in mezzo a vecchiette e giovani, adulti e bambini, tutti, rigorosamente, cubani. Stiamo aspettando da piu’ di un’ora, molti sono andati al bar nel frattempo. I cubani aspettano sempre, la coda e’ la loro attivita’ principale, in termini di tempo copre la maggior parte della loro giornata. Cio’ accumana in qualche modo Cuba con l’Africa, dove lo sport nazionale e’ l’attesa; pero’ qui si tratta di un’attesa differente: mentre gli africani aspettano passivamente, spesso immoti e molte volte senza un motivo preciso, qui a Cuba il socialismo ha creato un sistema di attesa attivo ed irregimentato che permette di impiegare il tempo in altre attivita’ (se non altro di sedersi all’ombra, nel parchetto vicino). Davanti ad un negozio come in banca, dal panettiere o alla fermata dell’autobus, il rituale e’ sempre lo stesso: si pregunta per “ ‘l ultimo” e si aspetta, in coda, di sentire il prossimo “ultimo?!?”. A questo punto si sa chi stava prima e chi dopo di noi, possiamo andare al bar a bere una cervecita, tanto sicuro di tempo ne avremo in abbondanza).
In realta’ poi, al momento di salire sull’autobus o di entrare nel negozio, la coda si accalca e l’ordine e’ sparso, pero’ quantomeno ognuno ha un controllo sull’ordine di ingresso e riuscira’ a non rimanere escluso da qualche furbo che ha scavalcato la fila.
La coda e’ dappertutto, l’attesa uno stile di vita.
In banca, alla fermata del bus o davanti ad un locale la coda e’ ovvia, ma perche’ stare ore in fila per il supermercato o l’alimentari? E’ l’unico modo per entrare, li’ la coda c’e’ sempre: siccome il prezzo di uno spazzolino da denti e’ circa due peso convertibili (CUC secondo la cifra ufficiale, o “cagna” secondo il gergo di strada, in ogni caso la moneta forte) e tale cifra rappresenta il 10% dello stipendio mensile di un medico, i mercanti hanno paura dei furti e non fanno entrare piu’ di dieci o venti persone per volta (ovvero il numero massimo che si riesce a tenere strettamente sott’occhio), e la coda degli avventori si allunga.

Vi capitera’ anche che per la strada dei sedicenti studenti o presunti tali (se lo sono la sfoggeranno, se non lo sono la rivenderanno) vi fermino per chiedervi in regalo una penna. Non ne vogliono una preziosa, ambiscono anche una semplice bic. Ma perche’ proprio un oggetto di cosi’ scarso valore come una penna? Il motivo e’ che qui le penne vendute nei normali negozi sono tutte uguali, ed anche una bic e’ un lusso, una chiccheria. La stessa cosa vi succedera’ per qualsiasi oggetto possediate: orologio, occhiali da sole, vestiti, apparecchi elettronici. Il valore dell’oggetto non importa (e di fatto difficilmente loro possono averne un’idea precisa, essendo l’accesso ad internet proibito ai cittadini cubani): cio’ che conta e’ che avranno qualcosa di unico, che nessun altro cubano ha.

Ore 10:50, intersezione aguaclara.
Mi sono svegliato alle 6:45, alle 7:30 ero alla piazza del parque infantil per cercare un modo di raggiungere Guivara. Una “bottella” (passaggio in autostop o “dedo” per i spanglofoni) e’ escluso: i posti di blocco sono frequenti e se un cubano viene fermato con un turista a bordo gli ritirano i documenti e gli fanno una multa. Per lo stesso motivo sono tagliato fuori dalla “machina”, una specie di taxi collettivo molto economico, ma anchesso per soli cubani. Un taxi regolare costerebbe come due notti d’albergo. Mi rimangono la guas-guas ed il “Camiòn” (una versione rurale della guasguas, praticamente un carro da bestiame motorizzato ad uso di trasporto pubblico che si riempie fino all’orlo). Questi non sono controllati e l’unico ostacolo per il turista e’ la soglia della sopportazione, della sopravvivenza.
Cosi’, dopo un paio d’ore d’attesa, riesco a ritagliarmi il mio strapuntino sulla guas-guas. Il tragitto e’ breve, dopo pochi minuti devo scendere allo svincolo aguaclara: una strada semisterrata che ne incrocia una del tutto sterrata, a lato un baracchino, all’ombra di un albero della gente seduta: aspettano, aspettano, aspettano.

Ore 11:30
Sono qui da piu’ di un’ora e mezza. Nel frattempo ho visto gente montare su moto, carretti trainati da muli, auto, biciclette. Uno e’ riuscito a fermare e farsi dare un passaggio da un’ambulanza. Quelli che restano sono sereni: nessuno impreca, si agita o si lamenta. Sono abituati all’incertezza, alla precarieta’, alle attese; tutte cose che noi invece non possiamo sopportare, dobbiamo sapere : quando arriva? Quando parte? Quanto ci mette?? Ci saranno posti disponibili a bordo??? Quante fermate farà? E quanto costa?!? Siamo tormentati dal dubbio, cerchiamo risposte, e se non le troviamo ci agitiamo. Il cubano invece e’ piu’ duttile, e’ fatalista, all’occorrenza (cioe’ sempre) improvvisa.

Ore 13.00
Finalmente sono arrivato a Givara. Dopo due ore e mezza di attesa di un Camiòn (che probabilmente sarebbe passato solo nel tardo pomeriggio) sono riuscito a convincere l’autista di una “machina” a caricarmi: “Mira, si vamos a encontrar la policia esta tranquillo y callate!” Suve! – conclude con un gesto del capo. Cammino verso il retro di quella specie di camionetta bassa ed allungata, mentre ad ogni passo gli occhi di tutti i passeggeri mi squadrano seguendomi lentamente con gli occhi. Quando apro lo sportellino tutti si girano verso di me, qualcuno protesta. “Es estudiante” si giustifica il conducente con tono secco. La camionetta e’ stracolma: lungo i lati due panche strette strette fungono da seduta, le ginocchia si toccano con quelle del vicino e della persona davanti e tutto l’interno del veicolo sembra il meccanismo di un orologio di cui le persone sono gli ingranaggi ormai rimasti senza carica.
Non vedendo posto nemmeno per avanzare, mi siedo sullo sportello, col culo fuori dalla macchina. “Adelante, adelante!” mi gridano. Si ma dove? Un bimbo viene preso in braccio dalla madre gia’ carica di pacchetti, tutti si stringono come le pieghe polverose d’una vecchia fisarmonica. Avanzo piegato in due (il tetto e’ cosi’ basso da permettere a mala pena di stare seduti retti) verso la testa della vettura: il posto ricavatomi basta a mala pena per una chiappa, mi ci siedo di sbieco. Appena partiamo capisco perche’ non si sono scansati nel senso opposto, ricavandomi lo strapuntino vicino allo sportello della camionetta: ogni frenata vengo schiacciato da una massa di persone che mi frana addosso, il posto in fondo e’ il piu’ comodo nonche’ areeggiato ed ambito, mentre quello alla testa, schiacciato contro la cabina del conducente, e’ il peggiore.

Guivara dista solo 35km da Holguin, ma in certi posti la lunghezza del viaggio non corrisponde affatto alla distanza lineare: delle 5 ore che ho impiegato per arrivare a destinazione solo una e’ stata di spostamento, le altre quattro, ovvero la fetta piu’ grande, e’ stata dedicata alla pratica della vita cubana attraverso la sua attivita’ principale, l’attesa.

L’EFFETTO CINECITTA’.
Givara, una domenica pomeriggio.
Ogni lingua presenta delle caratteristiche particolari che riflettono delle attitudini tradizionali del popolo che la parla.

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E’ un circolo naturale quanto enigmatico: le parole parlano delle cose, e queste, in qualche modo, cambiano per riflesso le parole e sono cambiate al contempo da esse. Mi piace a proposito pensare alla parola spagnola “manana”; com’è noto significa sia “domani”, che “mattina”: lo trovo stupendo. Come sa benissimo chiunque abbia fatto l’erasmus in spagna, non esiste mattina che non sia domani. Per definizione ci si sveglia ad una ora tale per cui non puo’ esserci equivoco ne’ contraddizione “manana” e’ infatti e “domani”, e “mattina”; e’ appunto “domani mattina” in quanto “mattina” e’ un concetto che puo’ esser solo domani. Cio’ rifletterebbe l’indole rilassata e “strusciante” dei popoli latini in generale.
Provate a passare in un paese di origine latina una domenica pomeriggio (a patto, naturalmente, che non ci sia qualche festa o qualche santo in ballo). Complice il caldo (sono tutti vicini all’equatore) lo spettacolo in cui vi ritroverete unico protagonista sara’ sempre lo stesso: intere cittadine deserte, senza vita, quasi abbandonate. Se in piu’ ci metterete qualche palazzo di cui e’ rimasta solo la facciata, e qualche rarissima vecchietta che da dietro le veneziane della sua casa vi apostrofera’ “Caballero...”, sentirsi sul set abbandonato di un film di Sergio Leone sara’ tutt’altro che improbabile.
Cosi’ mi e’ capitato qui a Givara, come quella domenica che andai in avan scoperta a Santo Domingo, e tante altre volte alle canarie, in spagna e nella stessa italia. Ancora piu’ stupefacente sara’ vedere la differenza con un altro giorno della settimana, magari quello di mercato o di festa del patrono: gente dappertutto, burla, schiamazzi, danze, canti, traffico di ogni tipo di mezzo di trasporto, risa. Una cartolina dello stereotipo latino che necessita dell’ozio domenicale cosi’ come dello sfrenato casino dei giorni di festa.

Appunti 1. La faccia dei Cubani.
La faccia dei cubani è generalmente complessa, nel senso matematico del termine. La morfologia dei loro volti è varia e colorata, i loro visi ricordano le carte orografiche di un paese di montagna. Ciò vale specialmente per gli adulti; da giovani, invece, i tratti sono lineari e semplici, componendosi nella bellezza tipica delle linee elementari e delicate.
Ma passata la soglia di un’età difficile da definire, il volto cubano sboccia in una varietà di rughe, fossette, incrinature, crepe, solchi e pianure, occhiaie. Spettacolo da quadri dell’Arcimboldo, si tratta di una varietà così esuberante da far sembrare la faccia animata da un’espressione dell’anima profonda come l’odio o l’amore anche quando neanche un muscolo del viso si è mosso, ed il soggetto è immerso nella più sonnolenta indifferenza.


Sono visi plasmati da una vita di emozioni somatizzate senza filtri: il cubano piange, ride, si dispera, odia, ed ama esteriorizzando nella faccia queste emozioni in modo esponenziale. Non è semplice mimica, detto in tre parole: il cubano facceggia.

07/03 TRINITAD.

06.45am, terminal degli autobus viazul.

Sono appena sceso dal pulman che mi ha portato da holguin a trinitad, attraversando da una parte all’altra l’isola ed una notte gelida. Non che la notte qui sia mai gelida, ma dove la natura si ferma comincia l’opera dell’uomo, e così si può avere freddo perfino nel paese dei tropici, basta salire su un pulman senza avere l’accortezza di portarsi il passamontagna, dimenticando che in pieno stile cubano l’aria condizionata è sparata a livello di cella frigorifera.
Ad ogni modo mi sgranchisco le gambe e mi sorprendo che nessuno mi abbia ancora assalito proponendomi ogni tipo di servizio. Mi guardo intorno. Il cortile è popolato solo da pulman ed altri passeggeri, in fondo l’ingresso è sbarrato da una catena tirata da un lato all’altro del cortile. Dall’altra parte della catena una fila ordinata di persone attendono placidamente rivolte verso i passeggeri come me appena sbarcati. Mano a mano che avanzo verso l’uscita sento una strana pressione aumentare, gli occhi di tutta quella gente dall’altra parte della catena mi si stringono passo dopo passo attorno come le spire dun serpente a sonagli. Ormai ad un passo dalla catena mi accorgo di un piccolo particolare, sono tutti cubani. Faccio un altro passo superando la catena e capisco, ma è ormai troppo tardi: come un esercito schierato a battaglia, i miei predatori sfoderano da dietro la schiena e da sotto le giacche cartelli e cartellini con ogni tipo di offerta. CASA PARTICULAR! TAXI TAXI! CHICA BUENA CHICA BUENA! TABACCO! PURO PURO! CASA PARTICULAR!
Sono abituato a trattare con questuanti ed accattonni di ogni tipo ed in ogni paese, ma l’attacco di trinitad è senza precedenti: in men che non si dica sono completamente circondato, mi pressano addosso e mi urlano nelle orecchie, qualcuno mi tira per un braccio per convincermi a seguirlo. Urla, strepita, non ho lo spazio neanche di evadere.
“BUEEEENO!” Grido. Fisso con la faccia più fredda possibile quello che mi tira per il braccio e gli abbaio contro digrignando i denti “Decame!”. Tiro fuori 20 peso cubani, indico il bicitaxi in fondo alla schiera, nelle retrovie, e gli dico di portarmi in centro, guadagnando così l’agognata fuga.

Giro città

Buceo

Tramonto e notturno


BiBlioteca


14/07 cienfuegos




17/03 la mia habana

Dell’Avana sapevamo soltanto che le luci del Prado erano sempre accese e che, se ti diceva bene, poteva capitarti l’occasione della tua vita



21/03 OASIS: I PERICOLOSI INTELLETTUALI.

Cienfuegos, Marina



10.000 dollari al mese. Questo e’ quanto il governo Danese paga per persona, per riabilitare i giovani con un passato difficile: drogati, sbandati, piccoli criminali, orfani, figli abusati di genitori alcolizzati o criminali, semplici disadattati sociali. In Danimarca non finiscono in galera o in qualche istituto correttivo o di igene mentale, o per lo meno non subito: lo Stato li prende, e magari li mette su una barca a vela a fare un giro del mondo di tre anni chissa’ che alla fine non ne venga fuori qualcuno buono. Questa e’ davvero una politica assistenzialista, devono davvero avere una fede incondizionata nelle generazioni future, chi investe cosi’ tanto nei giovani?
Prendete Erasmus (uno dei ragazzi che sono a bordo di Oasi, la barca su cui inizio da oggi a lavorare), il giudice gli ha detto: “Sei accusato di spaccio, puoi decidere di farti un altro anno di prigione o di farti due anni in barca a vela navigando per i tropici in giro per il mondo spesato dallo Stato. Cosa decidi?”.
Incredibile, ma vero, non e’ tornato in prigione.
Io ho incontrato Thomas, lo skipper/responsabile del progetto di riabilitazione e della barca, al marina mentre cercavo una barca per andare a Panama. Mi ha raccontato la storia, e mi ha offerto 700 euro per dargli una mano a portare la barca a Panama ed inculcare qualcosa di buono nelle teste di questi pericolosi intellettuali...

11.00am

Abbiamo fatto 240 litri di gasolio per 180cuc (circa 125euri), pieno di acqua ed un po’ di cambusa. In verita’ quello che ho visto in giro mi sembra scarso per un viaggio di 15 giorni per 6 persone, sopratutto l’acqua potabile (di cui sono andato a prendere personalmente qualche cassa in piu’); ma non e’ il caso di preoccuparsi, staremo sempre abbastanza vicini alla terra. Piu’ che altro sono un po’ intimorito dalle abitudini alimentari del resto dell’equipaggio: avendo avuto gia’ a che fare con Danes, come sa bene chi e’ stato in Danimarca, la loro cucina mi e’ tristemente nota, potendo essere molto salutare seppur non particolarmente raffinata (molti cereali, frutta, verdura in abbondanza ma preparati senza un criterio preciso) ma anche semplicemente agghiacciante (con tendenza quasi compulsiva a mischiare sapori contrastanti senza ne’ capo ne’ coda).

23/03 Cayo Coco

Le mie perplessita’ sull’alimentazione a bordo erano fondate: di certo qui si fa un uso criminoso della salsa ketchup e di tutte le salse grasse in generale. Ho cucinato una spigola con salsa di birra e patate, mi ci hanno messo sopra la maionese e la mostarda... qui il criminale diventero’ io per omicidio....
Nel tentativo di recuperare ho acquistato da dei pescatori cubani 6 aragoste da cinque kili l’una (per 4 euro e due pacchetti di sigarette) che faro’ stasera alla griglia.



27/03 MARE FORZA 9

Il golfo del Messico ospita uno dei mari piu’ agitati dei tropici: onde alte e contrastanti e venti tesi e variabili.
In questa situazione mi sono trovato nei 3 giorni di traversata da Cuba verso Panama.

Quella notte in particolare la fortuna mi ha baciato.
Bagnato fradicio, stanco, sferzato dalle raffiche, stavo per terminare il mio turno di guardia, erano le 3 di notte, quello che giustamente viene chiamato “il turno del cane”. Non potevo lasciare il timone un istante date quelle maledette onde e la barca che sfrecciava a 14 nodi nel buio completo di un mare che non riuscivo neanche a vedere, ma che sentivo roboare nelle orecchie e travolgermi fino alle spalle quando qualche onda piu’ impetuosa delle altre riusciva a scavalcare la barca e spazzare la coperta.
Ero contento di aver quasi finito, e speravo che thomas si svegliasse da solo per venire a darmi il cambio; nonostante fossi completamente bagnato e salato da capo a piedi, non agognavo altro che una sana dormita.
Fu allora che sentii la prua della barca come cadere nel vuoto, poi di nuovo la barca dritta, ma proprio davanti al mascone levarsi un muro d’acqua… e’ stato come incrociare un leone e guardarlo dritto negli occhi mentre spalanca le fauci con un ruggito assordante… Sapevo cosa stava per succedere, ma impietrito l’unica reazione che il mio corpo e’ stato in grado di produrre fu di stringere a morte le mani intorno alla ruota del timone: non ho avuto neanche il tempo di girarmi che l’acqua ha spazzato la barca con una violenza inaudita.
Erasmus, che era accucciato sopravvento, e’ stato scaraventato via dall’onda, per fortuna l’ho sentito rotolare dietro di me e con un braccio sono riuscito a parare la caduta ed afferrarlo… Per giorni non ho voluto neanche piu’ pensare a quella notte…

31/03 S. Blas

Le San Blas sono un piccolo paradiso sconosciuto: un gruppo di isolotti da cartolina abitati solamente da palme di cocco o dai Kuna, uno dei popoli piu’ bassi al mondo.



Le donne Kuna hanno un abbigliamento sgargiante con dei caratteristici bracciali e gambali colorati, quando si avvicina uno straniero, il loro braccio scatta quasi automaticamente in avanti a chiedere “one dollar”. Purtroppo la comunicazione e’ difficile, perche’ parlano quasi esclusivamente la lingua cuna, solo i bambini, e qualche uomo, masticano un po’ di spagnolo.




04/04 Welcome to the jungle

Purtroppo devo lasciare anzitempo la barca Oasis. Mi pagherebbero l’aereo fino a Panama, ma ho deciso di andare all’avventura e costruirmi la mia via per la grande citta’ attraverso l’arcipelago delle san blas e la giungla del Darien.
Un aereoplanino tipo chessna avrebbe potuto portarmi a Panama in circa 50 minuti, “a modo mio” invece ci ho messo circa 3 giorni annoverando tra i mezzi di trasporto canoe, pescherecci, una piccola nave cargo colombiana, ed un fuoristrada stile autoblindo modello El Al amein residuato del dopoguerra per attraversare la giungla fino alla prima autostrada asfaltata… state pure comodi in poltrona, l’acqua leggermente gasata e’ di vostro gradimento?



06/04 l’ombelico del mondo

L’impatto con Panama è stato incredibile, forse proprio per il modo in cui ci sono arrivato, o forse perché mi aspettavo qualcosa di completamente diverso… non certo una metropoli stile NY tutta grattacieli e ghetti di bulli ispanici che ti rapinano con pistole fatte in casa.


Ad ogni modo è davvero il crocevia del mondo, basti pensare che il 99% delle imbarcazioni in giro per il globo transita di qui. Ma non solo, è anche l’hub per tutti i globetrotter e studenti in tour del centro america. Io sono alloggiato in un bel ostello con la classica ed ossimorica aria di fermento e completo fancazzismo che caratterizza questi posti: c’è la ragazza brasiliana di famiglia bene che sogna di fare la fotografa ed è sempre a caccia di scatti particolari, c’è il gruppo di ragazzi ebrei che ha terminato il militare ed è in anno sabbatico, c’è la combriccola di ragazze argentine in vacanza prima della sessione estiva di esami, c’è il diciottenne tedesco scappato di casa che passa la sua vita sul divano lavoricchiando tra un ostello e l’altro, c’è il capannello di giapponesi tutte risatine e ghighellini, c’è il tatuato pazzo che non parla con nessuno e tutti credono abbia qualcosa da nascondere quando probabilmente è solo analfabeta e non riesce a vocalizzare un pensiero compiuto perché s’è giocato il cervello qualche anno fa con chissà quale fungo, c’è la giovane secchiona per la prima volta in libera uscita dalla scuola delle suore che sogna segretamente di farsi sbattere nel bagno dal pazzo tatuato, c’è la coppietta di quasi-trentenni in crisi (mentre lui non sospetta nulla, lei la notte non dorme pensando che – una volta ogni tanto – potrebbe anche portarla in un posto con un po’ piu’ di intimità), ed ovviamente c’è il vecchio babbione che cerca di fare il giovane giramondo. Cosi è, se vi pare.

09/04 interviste, party, e non aprite quella porta

Dopo alcuni giorni dedicati all’esplorazione di panama mi sono messo a cercare un’altra barca. Ho preso un simpatico trenino stile orient express che collega la città con l’altro lato del canale, è lì – a Colon – che tutte le barche sono in attesa di transitare, è lì la mia opportunità di trovare un imbarco.
Nel giro di una mattinata avevo già parlato con una cinquantina di persone e visitato 6 o 7 barche, non avendo di meglio da fare, mi sono preso il pomeriggio per girovagare per Colon. Ovviamente tutti mi hanno sconsigliato… Colon - “si sa” – è una delle città più pericolose del mondo!
Devo dire che all’inizio avevo un po’ di timore, ma mi ero preventivamente spogliato di ogni avere, tranne la macchina fotografica facilmente infrattabile. Colon è effettivamente pericolosa, perché la gente di qui non ha nulla, niente di niente, e quando non si ha nulla, non si ha neanche qualcosa da perdere, e si è disposti ed esposti a tutto, come cani rabbiosi. Colon è un residuo di città, un sobborgo puzzolente e baraccato, con le fogne a cielo aperto e le case sgarrupate.
Eppure tutto ciò mi cala una strana tristezza nel cuore, perché si intravede che una volta Colon era una Capitale del mondo, il crocevia di tutti i commerci, con strade lastricate e grandi alberghi… sotto questa scorza di macerie, in mezzo a ciò si vedono le rovine dei fasti di una metropoli della bel epoque.

Mentre mi avvio a ritornare allo yacht club (l’unico posto vivibile insieme alla “zona libre”, una sorta di fiera gigantesca dove si può comprare di tutto a prezzi stracciati) una mano mi tira la manica della camicia, mi giro cercando di celare la paura di una rapina: un bambino mi guarda con gli occhi spalancati. “Sir, I want to get away. Sir take me with you, sir. I want to go away sir!”


14/04 stuckled in the middle with you

Uno sciopero dei piloti del canale ha causato ritardi mostruosi nel transito delle barche a vela… Questo si traduce nel fatto che le mie possibilità di trovare una barca diminuiscono con il passare del tempo, ed ormai sono dieci giorni che sono fermo a Panama.
Potrei salire a bordo di Chennaker, una barca con un equipaggio davvero divertente, ma anche loro non attraverseranno prima della fine di maggio, ed io non ho nessuna intenzione di passare più di un mese a panama.
Mi è anche venuto in mente che potrei approfittarne per attraversare l’america centrale e visitare un po’ il sud del messico, ma poi rimarrebbe il problem ache il Pacifico andrebbe fatto di corsa, per evitare I cicloni, e Chennaker è tutto tranne una barca veloce…

16/04 miss fortune
E’ arrivata l’occasione, ed i treni vanno presi al volo. C’è un catamarano italiano che ha avuto un permesso speciale per transitare il canale in anticipo, salperà domani e potrebbe darmi un passaggio fino alle Galapagos, poi di lì si vedrà… Mi sono rimaste meno di 10 ore per pensarci, se decido di andare, domattina all’alba devo essere a colon col passaporto armi e bagagli pronto a salpare… E’ un po’ rischioso, perchè se alle Galapagos non riuscissi a trovare mi ritroverei nel bel mezzo dell’oceano obbligato a prendere un volo di certo costosissimo per una qualsiasi destinazione, ma che diavolo, sempre meglio che restare fermi no? E allora andiamo a transitare questo canale...